di Massimo Baldi
Da qualche tempo non abbiamo più notizie dell’Autonomia speciale. Certo, se ne discute a vari livelli. Se ne occupa perfino il Governo (e forse dovremmo preoccuparci…).
Ma l’Autonomia speciale, quella autenticamente popolare che portava alle urne quasi il 90 per cento degli elettori, ebbene quell’Autonomia della partecipazione e della condivisione di un modello sociale basato sul riconoscimento della specificità di un territorio, è ormai morta. Sepolta sotto le ceneri di un nazionalismo talvolta arcaico ed aggressivo, che non ammette la cultura della diversità, a meno che questa non soddisfi la fame di poltrone e non rappresenti la riproposizione in chiave locale di forme di sottogoverno gradite al ministro plenipotenziario di turno.
L’Autonomia speciale, passione e orgoglio di una classe politica ormai sepolta e incenerita dai piccoli incendi appiccati dai portatori di Fiamma tricolore, rimane dunque un timido ricordo che sembra non affascinare più nemmeno gli autonomisti di oggi.
E non è solo una questione economico / amministrativa sulla quale molto si potrebbe dire, a cominciare dal progressivo smantellamento del modello di assistenza sociale che, nel bene e nel male, aveva certificato la validità dell’impianto autonomistico. Né dell’inarrestabile decadimento della sanità pubblica, un tempo orgoglio e vanto dell’autonomia, né dello sperpero di risorse in ambiziosi progetti come la San Vincenzo Arena (ma che di arena in realtà ha ben poco), oppure dello sciagurato progetto della Valdastico.
No, non parliamo di questioni puramente amministrative. Parliamo piuttosto di come è cambiata negli ultimi anni la percezione dell’Autonomia da parte della comunità trentina. Nata nel 1948 per contrastare il fenomeno dell’emarginazione e della povertà, ma soprattutto per soddisfare le richieste di autogoverno di una popolazione vocata al far da sé, l’Autonomia trentina ha conosciuto periodi bui (si pensi alla gestione Odorizzi e ai contrasti con la SVP, oppure al progressivo smantellamento della rete bancaria locale e allo snaturamento dei princìpi della cooperazione) ma anche stagioni di grande innovazione: si pensi all’adozione del piano urbanistico provinciale voluto da Kessler nel 1967, oppure alla istituzione della legge sui Parchi e i biotopi del 1988, a firma di Walter Micheli.
Progetti lungimiranti che hanno qualificato l’Autonomia speciale rendendola modello di riferimento europeo. Volendo avvicinarci ai tempi attuali si potrebbe citare l’importante lavoro svolto dagli ex presidenti Andreotti e Dellai (e proseguito poi dalla Giunta Rossi), relativo alla costituzione dell’Euregio tirolese e all’intensificazione dei rapporti fra Trento, Bolzano e Innsbruck.
Nessuno può negare che, pur tra luci e ombre, furono stagioni di grande vitalità e partecipazione per l’Autonomia trentina. Chiunque abbia vissuto quei tempi può testimoniare la consapevolezza, da parte della maggioranza della comunità trentina (non tutta ovviamente), di appartenere ad un territorio unico e di frontiera, caratterizzato da una specificità reale e inimitabile, una consapevolezza che sembrava finalmente mettere in cassaforte il significato dell’autogoverno.
Oggi si può dire altrettanto? Decisamente no. L’agenda autonomista sembra svuotata di obiettivi strategici di medio / lungo termine. Le fiamme tetre ed oscure del nazionalismo post fascista, e del suprematismo di certe regioni confinanti, recepito anche da personalità politiche locali, sembrano aver ammantato di fumo ogni spinta innovativa e soprattutto sembrano aver centrato l’obiettivo di un livellamento dell’Autonomia speciale alle regioni ordinarie.
Va detto, a onor del vero, che il processo di “normalizzazione” delle autonomie speciali è un fenomeno invisibile che parte da lontano. Per molti aspetti rappresenta la conseguenza di quel “patriottismo repubblicano” (voluto fortemente dalla presidenza Ciampi e avallato dalla classe politica di quel tempo) che fu creato per contrastare le spinte localiste delle regioni a trazione leghista.
Progetto animato (forse) da buone intenzioni. Certo, non era stato calcolato che quella forma di patriottismo, caratterizzata da una continua esaltazione di miti e culture nazionali, ostentazione di tricolori, adunate militari, inni d’Italia suonati ovunque, anche in occasione di eventi sportivi e culturali di carattere locale, avrebbe ben presto creato le basi per la rapida diffusione di un sovranismo muscolare degenerato poi in un vero e proprio nazionalismo e che adesso pesa come un macigno sul futuro dell’Autonomia e della convivenza.
Il problema è che i segnali di questa involuzione nazionalista c’erano tutti. E nessuno ha voluto coglierli fino in fondo adottando ad esempio misure di bilanciamento. E così, senza troppo attendere l’appuntamento elettorale del 2022, che ha sancito la vittoria dell’estrema Destra sovranista e nazionalista, l’Autonomia trentina è progressivamente scivolata sotto il rigido controllo dei pretoriani del Governo “romano/padano” i quali, sfruttando il momento a loro favorevole e grazie all’abdicazione di tutto il centro sinistra, si sono volentieri accollati il ruolo di garanti dell’Autonomia che, agli occhi degli elettori italiani, rappresenta pur sempre un marchio di qualità. Per Salvini, Calderoli e la stessa Meloni, un’altra medaglia da appuntarsi al petto come trofeo di caccia, simbolo di conquista di altrui valori.
Salutiamo quindi con rispetto l’Autonomia che fu, anche se qualcuno potrà rispondere che la colpa era di coloro che c’erano prima e che le cose oggi vanno decisamente meglio. Forse può essere. Ma la colpa è di una intera generazione politica che non ha colto i segnali di allarme di una involuzione ormai inarrestabile verso quello che giornalisticamente è definita cultura populista, sovranista, nazionalista.
Teniamoci aggrappati forte a quel poco che ci resta prima di essere spazzati via dal vento patriottico che soffia forte sull’Italia, sull’Europa e sul mondo intero.