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15 Apr
15Apr

(mb) I dati parlano chiaro: anche nelle "ricche" Province autonome di Trento e Bolzano, la povertà delle famiglie è in sensibile aumento. Negli ultimi 5 anni, secondo i dati della Caritas trentina, il numero dei nuovi poveri è più che raddoppiato. 

Una situazione di grave disagio che va ad aggiungersi ad altri problemi sociali, come ad esempio la disoccupazione giovanile, la mancanza di alloggi popolari, l'impossibilità di accedere alle cure mediche in tempi rapidi, le paghe bassissime e la fuga dei giovani verso l'estero.

Certamente tutto questo è l'effetto di una serie di congiunture economiche iniziate ancora nel 2008, ma non tutto può essere addotto all'andamento economico. 

Nell'ultimo decennio, complice l'affermarsi di politiche orientate al liberismo selvaggio  e al corporativismo, si è infatti assistito ad un mutamento radicale negli atteggiamenti della popolazione verso le tematiche legate all'equità sociale e alla visione stessa dell'Autonomia come strumento di emancipazione collettiva.

Gran parte della classe politica locale, infatti, ha preferito la facile scorciatoia del populismo e della propaganda, scimmiottando gli atteggiamenti e i programmi dei partiti nazionali e nazionalisti, piuttosto che elaborare strategie rivolte al territorio e alle sue specificità. 

Il risultato è una Autonomia ripiegata su sè stessa, asservita a logiche nazionali prima ancora che territoriali. L'impressione è che manchi una reale strategia sul lungo periodo, una visione d'insieme diretta al benessere delle future generazioni di questa terra che, proprio grazie alla politica solidale, adottata fin dall'immediato dopoguerra, era riuscita a sollevarsi dalla  povertà e dalla depressione.  Basti pensare al ruolo della cooperazione e del credito, oppure alle politiche del lavoro e dell'ambiente su cui, pur con tutti i limiti e le devianze, erano state costruite le basi del successo del modello autonomista negli anni Ottanta e Novanta. Un modello ispirato alle politiche sociali dei Paesi nordici a trazione socialdemocratica senza il quale l'Autonomia sarebbe stata condannata alla mediocrità e alla semplice amministrazione contabile. 

I dati sconfortanti sull'affluenza alle urne, quasi indegni per una terra autonoma come la nostra, testimoniano inoltre lo scollamento tra società civile e istituzioni, oltre che la mancanza di una democrazia che parta dal basso e che scuota le coscienze sull'enorme valore dell'Autonomia speciale.

Si avverte, dunque, la necessità di una nuova stagione dell'Autonomia che si smarchi in modo rapido e definitivo da culture neoliberiste e che sappia recuperare quanto di buono ci arriva dal passato, ovvero da quella impostazione politico-culturale che si identifica nella difesa dello stato sociale

Non c'è Autonomia e non può esserci autonomismo, infatti, senza un solido piano che si richiami all'incontro fra quei due grandi filoni che hanno contraddistinto i successi dell'Autonomia fino a qualche anno fa: quello popolare di ispirazione cristiano sociale e quello "socialdemocratico" di ispirazione laica e socialista.  Un asse strategico in cui dovrebbero confluire i concetti di solidarietà, uguaglianza, concertazione sindacale, difesa dell'ambiente e pace sociale

Una nuova "socialdemocrazia popolare", insomma, che dovrebbe affermarsi nel pieno riconoscimento e ascolto dei cittadini, ma anche tramite il ritorno a politiche mutualistiche e cooperative intese come emancipazione economica, sociale e politica delle classi più povere.

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